Roberto Saviano

Apparizioni televisive, articoli e commenti

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  1. patna
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    Anche gli idioti hanno diritto di parlare
     
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  2. marina.1
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    Ma farebbero molto meglio a tacere..... :censored.gif:
     
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    CITAZIONE (marina.1 @ 15/10/2009, 19:15)
    Ma farebbero molto meglio a tacere..... :censored.gif:

    molto meglio.... E' ora di finirla.....
     
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  4. Ireth74
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    Lettera all'Italia infelice

    di Roberto SAVIANO

    La grande mobilitazione sulla libertà di stampa dimostra che c'è un Paese vitale. Ma anche che raccontare la realtà è l'unico modo per difenderlo.

    Se la libertà è divenuto tema di dibattito continuo, quasi ossessivo in Italia vuole dire che qualcosa non funziona. Verità e potere non coincidono mai e quello che sta accadendo in questi giorni lo dimostra. Ci sono lezioni che non si imparano, disastri naturali che si ripetono come se la storia non ci avesse insegnato nulla e sacrifici di persone che hanno lottato per rendere questo Paese migliore che vengono dimenticati se non ignorati o peggio insultati. Qualcosa non funziona perché non si vuole capire quello che è accaduto e che quello che avviene tutti i giorni: non si racconta il presente, non si analizza il passato, tutto diventa polemica, dibattito sterile; tutto si avvita in un turbine di gelosie e di guerre tra bande.

    La folla di piazza del Popolo mi ha stupito, stordito, emozionato. Non sapevo cosa dire: quella che avevo davanti era una testimonianza incredibile, non ero più abituato a vedere tanti volti e tanto sole. Da quando tre anni fa sono stato messo sotto protezione e costretto a vivere con la scorta non avevo mai potuto sentire un vento di speranza così forte.

    Alla gente in Italia non interessa la libertà di stampa, non si preoccupa per il fatto che sia stata offuscata e minacciata da quello che sta accadendo: la libertà di stampa non è importante perché non la si considera necessaria e utile al proprio quotidiano. Non capiscono quello che stanno rischiando, quanto possono perdere. Se ne accorgeranno solo quando riusciranno a vedere con occhi diversi e comprenderanno che oggi sulla maggioranza dei media la vita non viene raccontata ma rappresentata. Ricostruita secondo luci e dinamiche che la rendono finta. Verosimile ma lontana dal reale: come quelle foto ritoccate al computer per cancellare le imperfezioni, far sparire le rughe, il peso del tempo e gli acciacchi del divenire fino a rendere un'immagine diversa delle persone che così rinunciano persino a specchiarsi.

    Ci viene raccontata un'Italia allegra, il Paese del bel mangiare e delle belle donne. Ci viene imposto il modello di un Paese spensierato, in fila per partecipare alla fortuna milionaria delle lotterie e per vincere un posto in un reality show. Ma l'Italia oggi è profondamente infelice e triste. Vive nella cattiveria di una guerra per bande generalizzata, di un sistema animato dalle invidie. E la nostra percezione è così lontana dalla realtà da impedirci anche di renderci conto dell'infelicità. Ho sempre dentro il racconto di un immigrato africano che incontrai a Castel Volturno prima delle riprese del film 'Gomorra': "La cosa che odio degli italiani è la loro gelosia, quell'invidia cattiva che hanno nei confronti di chiunque riesca ad ottenere qualcosa. Quando in Francia lavori molto, riesci a guadagnare e puoi comprarti una bella macchina, ti guardano riconoscendo il risultato. Dicono: "Quanto ha faticato per farcela". Invece quando in Italia ti vedono al volante della stessa auto senti subito che ti stanno dicendo "Stronzo bastardo". Non si pongono nemmeno la domanda su quanti sacrifici hai fatto, scatta subito una gelosia che si trasforma in odio.

    Questo accade solo nei paesi dove i diritti divengono privilegi, e quindi dove il nemico non è il meccanismo sociale che ha permesso questo, ma bensì chi riesce ad avere quel diritto. Una guerra tra vicini ignorando i responsabili del disastro.

    Questo si combatte solo raccontando quello che non va, perché solo raccontando la realtà di quest'Italia arida si potrà sconfiggere l'infelicità: la libertà di stampa è utile per essere felici. Ed è la Carta fondante gli Stati Uniti ad avere dichiarato vita, libertà e ricerca della felicità come diritti inalienabili, tutelati da quella costituzione che per prima ha riconosciuto libertà di culto, di stampa e di parola. La libertà di stampa è fondamentale per potere credere nella felicità.

    Prendete le cronache sulla crisi economica che ogni giorno vanno sui telegiornali e su molti giornali. Non viene mai descritta l'infelicità causata dalla crisi. Si parla del dato finanziario macroscopico, illustrato con indicatori spesso incomprensibili. Si parla della chiusura di questa o quella fabbrica ma non si racconta la quotidianità che si distrugge, la vita che si disumanizza. Per chi resta senza lavoro la crisi significa meno vacanze, meno serenità, meno diritti e quindi meno libertà. Ma tutto ciò non viene raccontato.

    Prendete le cronache televisive sulla lotta a mafia e camorra. Si dà enfasi solo agli arresti, che sono un punto di partenza e non un punto di arrivo. Sono un successo degli investigatori, ma devono servire come elemento per comprendere quali complicità e quali risorse alimentano il mondo criminale. Mi ricordo quando venne resa pubblica l'indagine sul Cafè de Paris di Roma, che tutte le guide internazionali elencano come uno dei locali più celebri, un tempio della Dolce Vita: l'unico commento dei rappresentanti istituzionali furono i complimenti alle forze dell'ordine. Nessuno si è chiesto come fosse possibile che - secondo le indagini - la criminalità organizzata si fosse impadronita di uno dei simboli di via Veneto.

    La battaglia per la libertà di stampa per quanto mi riguarda è la battaglia per la possibilità di continuare serenamente a scrivere. Le mie parole hanno il senso della libertà come quelle del fotoreporter Christian Poveda ucciso per avere realizzato un film sui narcotrafficanti del Salvador. Si è parlato poco di questo assassinio perché si pensa che la gente sappia già tutto, ma non è così e le mafie sono terrorizzate dall'idea che la gente leggendo capisca. La responsabilità maggiore per chi racconta queste cose è arrivare alle persone: nulla di ciò che scrivo fa paura, loro hanno paura di chi legge. E oggi non solo sono i mafiosi ad avere paura: la minaccia, con forme diverse dalla brutalità dei killer ma non meno pericolose per la democrazia, è diventata generalizzata. Gli italiani stanno rinunciando a quello per cui Anna Politkovskaja in Russia e Christian Poveda in Salvador sono morti: volevano che nei loro paesi ci potesse essere la libertà di scrivere come in Europa. Quello che sta accadendo da noi non rispetta il loro sacrificio.

    L'assenza di serenità ci porta a rinunciare alla libertà di stampa. Sapere che la replica al proprio lavoro non sarà una critica, ma un'offesa o un attentato alla sfera privata spinge ad autocensurarsi, convince a non attaccare qualunque autorità, rende schiavi di ogni potere. Dopo l'editoriale di Augusto Minzolini sul Tg1 mi sono chiesto se si rendesse conto di quello che stava facendo. Avrei voluto dirgli che manifestare per la libertà di stampa significava manifestare anche per lui, anche per il suo futuro: un futuro in cui se si potrà ancora parlare del potere, se lo si potrà criticare è perché qualcuno ha lottato per renderlo possibile. Si è scesi in piazza anche per lui, perché lui domani possa continuare a dire quello che dice oggi anche se dovesse cambiare il potere che difende le sue parole.

    Il giornalista non è eletto, rappresenta se stesso o la sua testata, rappresenta le sue idee: non deve rispondere della sua vita privata. Non importa quali siano i suoi orientamenti sessuali o la sua religione: fa domande in nome del proprio lavoro e della possibilità di interrogare la democrazia. È diverso dal politico. Il politico deve rispondere della sua vita privata, il giornalista di quello che scrive.

    Fare il politico oggi nell'immaginario è fare il lavoro più semplice e comodo. Mi vengono alla mente le famiglie meridionali in cui il figlio più intelligente fa l'imprenditore e quello incapace il politico. Invece la politica dovrebbe essere una responsabilità pesante e difficile, un mestiere duro. Capisco il fastidio che può avere un politico a essere esaminato nella sua vita privata, ma questo è l'onere della sua missione, fa parte della democrazia.

    Oggi bisogna ricalibrare l'immaginario del politico, ritornare a una figura che fa una vita dura e poco divertente. La politica come servizio al Paese e ai cittadini, non come privilegio. La politica è vivere nella difficoltà. Penso al rigore morale di Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante e Giorgio La Pira, restano figure di servizio alle istituzioni, nonostante i loro ideali e la loro fede religiosa.

    Sono cresciuto al fianco di uomini di destra che non avrebbero mai sopportato questo clima di intimidazione e crudeltà, così come ormai la divisione e la rivalità sono così diffuse che impediscono alla sinistra ogni forma di aggregazione vera. Ogni possibilità di parlare al cuore delle persone. Oggi invece chi racconta cose scomode, chi descrive la realtà infelice dell'Italia viene accusato dalle massime autorità politiche di gettare discredito sul Paese agli occhi del mondo. Chi fa del male all'Italia: chi denuncia i misfatti o chi li realizza? Anche nel caso del film 'Gomorra' di Matteo Garrone c'è stata l'accusa di tradimento, di vilipendio alla nazione. Il film nasce per essere diverso dal libro. È uno sguardo totalmente antropologico, osserva il livello zero della realtà campana. È molto diverso dal libro, ma non ne tradisce lo spirito: sono complementari. È un film che racconta la realtà senza deformarla. Il territorio è fotografato come nessuno aveva mai fatto nel cinema italiano: le Vele di Secondigliano, le discariche di rifiuti tossici, le fabbriche clandestine, i paesi senza speranza.

    C'è una scena registrata dalle telecamere sul set. È un capolavoro che dovrebbe entrare anche nel film, un trattato di estetica cinematografica. Ciro e Marco, i due attori avevano paura di essere sparati sul serio dall'uomo che impersonava il killer: le armi erano a salve ma la fiammata troppo ravvicinata avrebbe potuto comunque ustionarli. La sceneggiatura non prevedeva un ruolo per quell'uomo che lì tutti conoscevano. Ma lui ha fatto irruzione sul set: "Ci faccio una figura di merda se io che nella vita ho fatto davvero queste cose non ammazzo nessuno nel film!". I due ragazzi erano perplessi e spaventati: "Ma perché tutti ci vogliono uccidere?". Paura vera, fissata nelle telecamere. Ed è così che si è arrivati a modificare il finale con tanti attori che fanno fuoco su Marco e Ciro.

    Io ricordo le vere vittime, quei due adolescenti assassinati per la loro sfida inconsapevole e irrinunciabile ai clan casalesi. Per questo la sceneggiatura non ha voluto mitizzare la mafia, ma descriverla, raccontarla, smontare la sua quotidianità. È questa la novità, la forza di 'Gomorra'. Quello che rende bello Michael Corleone è che si tratta di uomo tormentato, affascinante, potente che ha le sue regole: lo disprezzi ma ti identifichi con lui. In 'Gomorra' questo non doveva accadere. Alla fine del film ti doveva restare addosso il puzzo delle pesche avvelenate dalle discariche clandestine, la miseria della vita di chi aspetta la mesata del camorrista.

    'Gomorra' ha raggiunto l'obiettivo. È stato molto visto in tutto il mondo, persino negli Usa hanno compreso la potenza di quella visione 'ground zero'. È stato un film inaspettato perché in molti paesi si attendeva 'Gomorra' come un mafia movie dai toni compiacenti. Non è stato così e si è fatto amare per la sua diversità. Un'esperienza lisergica è stato vederlo nel cinema di Stoccolma accanto alla sede dell'Accademia dei Nobel. Feceva un freddo cane. Ero insieme a Salman Rushdie e in sala c'erano centinaia di svedesi che si sorbivano il dialetto casalese o napoletano senza mai distrarsi, catturati dalle scene di Garrone.

    Raccontare la realtà non significa infangare il proprio Paese: significa amarlo, significa credere nella libertà. Raccontare è l'unico dannato modo per iniziare a cambiare le cose.


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  5. patna
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    Una lettera cruda - ma estremamente reale - Saviano ha fatto un ritratto dell'Italia assolutamente sincero -
     
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    Raccontare la realtà non significa infangare il proprio Paese: significa amarlo, significa credere nella libertà. Raccontare è l'unico dannato modo per iniziare a cambiare le cose.

    Quello che ha scritto è la verità!
     
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  7. Ireth74
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    La camorra alla conquista dei partiti in Campania
    di Roberto Saviano

    Quando un'organizzazione può decidere del destino di un partito controllandone le tessere, quando può pesare sulla presidenza di una Regione, quando può infiltrarsi con assoluta dimestichezza e altrettanta noncuranza in opposizione e maggioranza, quando può decidere le sorti di quasi sei milioni di cittadini, non ci troviamo di fronte a un'emergenza, a un'anomalia, a un "caso Campania". Ma al cospetto di una presa di potere già avvenuta della quale ora riusciamo semplicemente a mettere insieme alcuni segni e sintomi palesi.

    Sembra persino riduttivo il ricorso alla tradizionale metafora del cancro: utile, forse, soprattutto per mostrare il meccanismo parassitario con cui avviene l'occupazione dello Stato democratico da parte di un sistema affaristico-politico-mafioso. Ora che le organizzazioni criminali decidono gli equilibri politici, è la politica ad essere chiamata a dare una risposta immediata e netta. Nicola Cosentino, attuale sottosegretario all'Economia e coordinatore del Pdl in Campania, fino a qualche giorno fa era l'indiscusso candidato alla presidenza della Regione. Nicola Cosentino, detto "o'mericano", è stato indicato da cinque pentiti come uomo organico agli interessi dei Casalesi: tra le deposizioni figurano quelle di Carmine Schiavone, cugino di Sandokan, nonché di Dario de Simone, altro ex capo ma soprattutto uno dei pentiti che si sono rivelati fra i più affidabili al processo Spartacus.

    Per ora non ci sono cause pendenti sulla sua testa e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono al vaglio della magistratura. Nicola Cosentino si difende affermando di non poter essere accusato della sua nascita a Casal di Principe, né dei legami stretti anni fa da alcuni suoi familiari con esponenti del clan. Però da parte sua sono sempre mancate inequivocabili prese di distanza e questo, in un territorio come quello casertano, sarebbe già stato sufficiente per tenere sotto stretta sorveglianza la sua carriera politica. Invece l'ascesa di Cosentino non ha trovato ostacoli: da coordinatore provinciale a coordinatore regionale, da candidato alla Provincia di Caserta a sottosegretario dell'attuale governo. E solo ora che aspira alla carica di Governatore, finalmente qualcuno si sveglia e si chiede: chi è Nicola Cosentino? Perché solo ora si accorgono che non è idoneo come presidente di regione?

    Perché si è permesso che l'unico sviluppo di questi territori fosse costruire mastodontici centri commerciali (tra cui il Centro Campania, uno dei più grandi al mondo) che sistematicamente andavano ad ingrassare gli affari dei clan. Come ha dichiarato il capo dell'antimafia di Napoli Cafiero de Raho "è stato accertato che sarebbe stato imposto non solo il pagamento di tangenti per 450 mila euro (per ogni lavoro ndr) ma anche l'affidamento di subappalti in favore di ditte segnalate da Pasquale Zagaria". Lo stesso è accaduto con Ikea, che come denunciato al Senato nel 2004 è sorto su un terreno già confiscato al capocamorra Magliulo Vincenzo, e viene dallo Stato ceduto ad una azienda legata ai clan. Nulla può muoversi se il cemento dei clan non benedice ogni lavoro.

    Secondo Gaetano Vassallo, il pentito dei rifiuti facente parte della fazione Bidognetti, Cosentino insieme a Luigi Cesaro, altro parlamentare Pdl assai potente, in zona controllava per il clan il consorzio Eco4, ossia la parte "semilegale" del business dell'immondizia che ha già chiesto il tributo di sangue di una vittima eccellente: Michele Orsi, uno dei fratelli che gestivano il consorzio, viene freddato a giugno dell'anno scorso in centro a Casal di Principe, poco prima che fosse chiamato a testimoniare a un processo. Il consorzio operava in tutto il basso casertano sino all'area di Mondragone dove sarebbe invece - sempre secondo il pentito Gaetano Vassallo - Cosimo Chianese, il fedelissimo di Mario Landolfi, ex uomo di An, a curare gli interessi del clan La Torre. Interessi che riguardano da un lato ciò che fa girare il danaro: tangenti e subappalti, nonché la prassi di sversare rifiuti tossici in discariche destinate a rifiuti urbani, finendo per rivestire di un osceno manto legale l'avvelenamento sistematico campano incominciato a partire dagli anni Novanta. Dall'altro lato assunzioni che garantiscono voti ossia stabilizzano il consenso e il potere politico.

    Districare i piani è quasi impossibile, così come è impossibile trovare le differenze tra economia legale e economia criminale, distinguere il profilo di un costruttore legato ai clan ed un costruttore indipendente e pulito. Ed è impossibile distinguere fra destra e sinistra perché per i clan la sola differenza è quella che passa tra uomini avvicinabili, ovvero uomini "loro", e i pochi, troppo pochi e sempre troppo deboli esponenti politici che non lo sono. E, infine, è pura illusione pensare che possa esistere una gestione clientelare "vecchia maniera", ossia fondata certo su favori elargiti su larga scala, ma aliena dalla contaminazione con la camorra. Per quanto Clemente Mastella possa dichiarare: "Io non ho nessuna attinenza con i clan e vivo in una provincia dove questo fenomeno non c'è, o almeno non c'era fino a poco fa", sta di fatto che un filone dell'inchiesta sullo scandalo che ha investito lui, la sua famiglia e il suo partito sia ora al vaglio dell'Antimafia. I pubblici ministeri starebbero indagando sul business connesso alla tutela ambientale; si ipotizza il coinvolgimento oltre che degli stessi Casalesi anche del clan Belforte di Marcianise. Il tramite di queste operazioni sarebbe Nicola Ferraro, anch'egli nativo di Casal di Principe, consigliere regionale dell'Udeur, nonché segretario del partito in Campania. Di Ferraro, imprenditore nel settore dei rifiuti, va ricordato che alla sua azienda fu negato il certificato antimafia; ciò non gli ha impedito di fare carriera in politica. E questo è un fatto.

    Di nuovo, non è l'aspetto folkloristico, la Porsche Cayenne comprata dal figlio di Mastella Pellegrino da un concessionario marcianisano attualmente detenuto al 416-bis, a dover attirare l'attenzione. L'aspetto più importante è vedere cos'è stato il sistema Mastella - un sistema che per trent'anni ha rappresentato la continuità della politica feudale meridionale - e che cosa è divenuto. Oggi, persino se le indagini giudiziarie dovessero dare esiti diversi, non si può fingere di non vedere che Ceppaloni confina con Casal di Principe o vi si sovrappone. E il nome di Casale qui non ha valenza solo simbolica, ma è richiamo preciso alla più potente, meglio organizzata e meglio diversificata organizzazione criminale della regione.

    Per la camorra - abbiamo detto - destra e sinistra non esistono. Il Pd dovrebbe chiedersi, ad esempio, come è possibile che in un solo pomeriggio a Napoli aderiscano in seimila. Chi sono tutti quei nuovi iscritti, chi li ha raccolti, chi li ha mandati a fare incetta di tessere? Da chi è formata la base di un partito che a Napoli e provincia conta circa 60.000 tesserati, 10.000 in provincia di Caserta, 12.000 in quella di Salerno, 6.000 ciascuno nelle restanti province di Avellino e Benevento? Chiedersi se è normale che il solo casertano abbia più iscritti dell'intera Lombardia, se non sia curioso che in alcuni comuni alle recenti elezioni provinciali, i voti effettivamente espressi in favore del partito erano inferiori al numero delle tessere. Perché la dirigenza del Pd non è intervenuta subito su questo scandalo?

    Che razza di militanti sono quelli che non vanno a votare, o meglio: vanno a votare solo laddove il loro voto serve? E quel che serve, probabilmente, è il voto alle primarie, soprattutto nella prima ipotesi che fosse accessibile solo ai membri tesserati. Questo è il sospetto sempre più forte, mentre altri fatti sono certezza. Come la morte di Gino Tommasino, consigliere comunale Pd di Castellammare di Stabia, ucciso nel febbraio dell'anno scorso da un commando di cui faceva parte anche un suo compagno di partito. O la presenza al matrimonio della nipote del ex boss Carmine Alfieri del sindaco di Pompei Claudio d'Alessio.

    L'unica cosa da fare è azzerare tutto. Azzerare le dirigenze, interrompere i processi di selezione in corso, sia per la candidatura alla Regione che per le primarie del Pd, all'occorrenza invalidare i risultati. Non è più pensabile lasciare la politica in mano a chi la svende a interessi criminali o feudali. Non basta più affidare il risanamento di questa situazione all'azione del potere giudiziario. Non basterebbe neppure in un Paese in cui la magistratura non fosse al centro di polemiche e i tempi della giustizia non fossero lunghi come nel nostro. È la politica, solo la politica che deve assumersi la responsabilità dei danni che ha creato. Azzerare e non ricandidare più tutti quei politici divenuti potenti non sulle idee, non su carisma, non sui progetti ma sulle clientele, sul talento di riuscire a spartire posti e quindi ricevere voti.

    Mentre la politica si disinteressava della mafia, la mafia si è interessata alla politica cooptandola sistematicamente. Ieri a Casapesenna, il paese di Michele Zagaria, è morto un uomo, un politico, il cui nome non è mai uscito dalle cronache locali. Si chiamava Antonio Cangiano, nel 1988 era vicesindaco e si rifiutò di far vincere un appalto a un'impresa legata al clan. Per questo gli tesero un agguato. Lo colpirono alla schiena, da dietro, in quattro, in piazza: non per ucciderlo ma solo per immobilizzarlo, paralizzarlo. Tonino Cangiano ha vissuto ventun'anni su una sedia a rotelle, ma non si è mai piegato. Non si è nemmeno perso d'animo quando tre anni fa coloro che riteneva responsabili di quel supplizio sono stati assolti per insufficienza di prove.

    Se la politica, persino la peggiore, non vuole rassegnarsi ad essere mero simulacro, semplice stampella di un'altra gestione del potere, è ora che corra drasticamente ai ripari. Per mero istinto di sopravvivenza, ancora prima che per "questione morale". Non è impossibile. O testimonia l'immagine emblematica e reale di Tonino che negli anni aveva dovuto subire numerosi e dolorosi interventi terminati con l'amputazione delle gambe, un corpo dimezzato, ma il cui pensiero, la cui parola, la cui voglia di lottare continuava a prendersi ogni libertà di movimento. Un uomo senza gambe che cammina dritto e libero, questo è oggi il contrario di ciò che rappresentano il Sud e la Campania. È ciò da cui si dovrebbe finalmente ricominciare.


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  8. Ireth74
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    In cinque minuti la banalità dell'inferno ora sogno la ribellione del quartiere
    di Roberto Saviano

    TUTTO normale. È questo che sembra essere il tempo e il modo di questa esecuzione di camorra. Normalità. Tutto normale scavalcare un morto per terra, tutto normale vedere un uomo che viene sparato alla testa e non far nulla, nemmeno gridare, o chiamare qualcuno. È tutto normale, non si corre, nessuno sente di dover far niente. La città è in guerra e si agisce come agiscono gli uomini in guerra ossia, strisciare, allontanarsi, non dare nell'occhio.

    Porta a casa la pelle, il resto vale zero. L'inferno c'è ed esiste e sono quei cinque minuti ripresi da una telecamera installata a Napoli, in via Vergini, nel quartiere Sanità. Scienza non insolita a Napoli negli ultimi trent'anni. Non insolita per le persone che la vivono come un'eventualità, come assistere ad un litigio o ad un tamponamento. L'assassino, l'uomo che uccide, è persona tecnicamente abile; molto probabilmente è un uomo che ha già ucciso. Vede il suo obiettivo, entra senza problemi nel bar, si fa un giro poi esce e spara tre colpi, secchi, ravvicinati, a pochi centimetri dal corpo. I primi colpi sono più bassi, poi l'ultimo: il colpo di grazia.

    Ogni camorrista quando non uccide paga personalmente l'errore; paga per aver lasciato in vita un condannato che diviene poi testimone. Per questo, basta dare uno sguardo ai referti necroscopici degli ammazzati dalla camorra negli ultimi dieci anni: quasi tutti vengono sparati in faccia o alla nuca, per avere la certezza della morte.

    Esplosi i colpi, l'assassino va via con l'arma in mano, non la ripone perché sa bene che c'è il rischio che qualcuno possa rispondere al suo fuoco, e deve essere pronto a reagire. Non l'ha ucciso arrivando in moto come si fa in genere, e come sarebbe stato più comodo, questo forse denota che non è un killer del quartiere, che in zona non l'avrebbero riconosciuto e quindi non doveva scappare e nascondere il viso. E difatti il suo obiettivo non lo identifica come un camorrista, non si accorge della sua presenza. Questo video rivela un realtà quotidiana che per la prima volta viene chiaramente mostrata. Una prova che in maniera fin troppo chiara decostruisce completamente l'immaginario cinematografico dell'agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c'è nessuno che sbraita e si dispera mentre all'impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile.

    L'esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell'irrealtà, che mette in dubbio l'umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud. Chi userà la cantilena che si esagera, che si parla sempre male di questa realtà. Ci saranno ancora quelli che diranno queste cose? Mille trattati e cento sentenze non valgono la freddezza con cui le persone riprese in quel video hanno osservato, davanti ai propri occhi, l'esecuzione a sangue freddo di un uomo. E' dietro l'angolo la solita accusa alla città codarda, alla città indifferente, come avvenne quando nella metropolitana di Montesanto la camorra, a sangue freddo, uccise l'innocente musicista rumeno Petru Birlandeanu.

    È forse necessario spiegare cosa si prova in situazioni come queste? Credo di sì. Nel mezzo di una sparatoria o davanti a un killer freddo e spietato, l'unico sentimento che provi è paura. Ciò che hai dentro è la volontà di non essere identificato da un eventuale palo, che sai esserci. Non vuoi essere identificato come chi si sta accorgendo dell'accaduto e potrebbe, in quanto testimone, denunciare. Le dinamiche della paura in terra di mafia hanno sintassi complesse che non possono essere liquidate banalmente ed etichettate come codardia. Non è banale codardia ma qualcosa di peggio.

    Non si chiama la polizia altrimenti a te verrebbe chiesto cosa hai visto, cosa sai. Si tende a non prendersi altri guai. E' autodifesa e terribile certezza che ormai la città è in mano loro. A morire, poi, è un uomo noto nel quartiere, non una brava persona e non uno sprovveduto, una persona che con molta probabilità girava con guardaspalle. Mariano Bacioterracino, svaligiatore di banche. Un crimine, questo, da sempre odioso a gran parte della criminalità organizzata campana, ma di cui l'enclave del quartiere Sanità, capeggiata da Giuseppe Misso, si serviva, invece, per accumulare denaro da reinvestire e che utilizzava persino come leva ideologica e sociale. In un quartiere estremamente popolare, dove meno di dieci giorni fa è morto il piccolo Elvis, intossicato dal monossido di carbonio proveniente dal braciere con cui, per estrema povertà, insieme a sua madre si riscaldava; in un quartiere dove i livelli di disagio sono altissimi, spacciarsi per moderni Robin Hood non è impresa ardua. E le rapine le usavano anche in questa sorta di finta redistribuzione di ricchezze, in realtà stipendi da dare ad affiliati.

    E i moventi: per ora due le piste. L'omicidio di Gennaro Moccia avvenuto nel lontano 1987 e per cui Bacioterracino è stato assolto in secondo grado, e un movente passionale: avrebbe forse corteggiato la donna sbagliata. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte a una vendetta messa in atto molti anni dopo, a riprova ancora una volta della longevità della memoria dei clan. Che non hanno perdonato Bacioterracino come sei anni fa, il 31 ottobre del 2003, non perdonarono Sebastiano Caterino, il boss del casertano che undici anni prima, nel 1992, aveva apertamente sfidato i casalesi di Francesco Schiavone Sandokan. Che non hanno perdonato l'innocente Domenico Noviello, l'imprenditore ucciso nel 2008 per aver denunciato nel 2001 le estorsioni subite dal clan dei casalesi, ucciso appena gli è stata tolta la scorta. Che non hanno dimenticato Antonio Salzillo, l'ultimo erede di Antonio Bardellino ancora rimasto in vita, e per questo freddato a marzo del 2009. La camorra ha una memoria infallibile.

    Ma c'è qualcosa, questa volta, che potrebbe sconvolgere un meccanismo rodato, che funziona da sempre. Questo video potrebbe per la prima volta, oggi, cambiare gli eventi che seguono un omicidio di camorra, un regolamento di conti in cui nessuno deve mettere bocca. Potrebbe servire non semplicemente a mostrare una realtà di strada, a informare e incuriosire i lettori del Nord che non sono abituati a scene del genere. Questo video potrebbe servire a rintracciare il killer e a far sì che non sia più il singolo, ma più persone, un'intera comunità, un intero quartiere a identificare l'omicida e a decidere di denunciarlo. Non più una sola persona, enormemente coraggiosa e terribilmente sola, ma una moltitudine che decida di esporsi e denunciare. Sarebbe importante non tanto per rendere giustizia all'ennesimo criminale ucciso, quanto piuttosto per rendere giustizia a una realtà come quella napoletana che paga il prezzo più alto per queste esecuzioni.

    Per ogni esecuzione di camorra, per ogni omicidio, Napoli perde dignità, credibilità, luce e serenità. E magari da questo video, pur nella sua atrocità, qualcosa di buono potrà venire. In futuro - e mi rivolgo ai lettori del centro e nord Italia - quando leggerete di queste storie, quando leggerete delle esecuzioni, quando sentirete parlare di sparatorie, invece di pensare che si stia parlando di periferie distanti e di vicende sconosciute, ricordatevi di queste immagini in modo che le parole, i fiumi di parole che schiere di giornalisti quotidianamente scrivono su queste vicende possano trovare concretezza nel vostro sguardo, nello sguardo di chi legge, uno sguardo che può chiedere di mantenere luce accesa su tutto questo.

    È fondamentale comprendere che le organizzazioni criminali che in Campania, in Calabria e in Sicilia, negli ultimi trent'anni, hanno fatto più di diecimila morti, non sono un problema del Paese, ma sono il problema del Paese. Che ogni attimo dedicato ad altre vicende, ogni attimo che ci vede distratti da altre questioni, è un attimo concesso alle mafie.

    Tirate le somme, questa vicenda ha una triste morale. Di fronte a queste immagini ti poni sempre la stessa domanda: quanto vale la vita di un uomo nella mia terra? E la risposta, tragicamente, la trovi in quelle persone che si allontanano dal cadavere con gesti quotidiani: la vita di un uomo nella mia terra non vale niente. Le denuncia del killer potrebbe essere l'unico modo di riscattare un'umanità ormai sempre più a suo agio nella disumanità cui è costretta e in cui sembra comodamente vivere.


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    CAMORRA: SAVIANO, QUEL VIDEO SCHOCK PURTROPPO MOSTRA LA NORMALITA'


    Roma, 30 ott. (Adnkronos) - "Le immagini non mi hanno sconvolto, purtroppo mostrano la normalita'", e ancora: "Sogno il riscatto della mia citta' attraverso una denuncia di massa". Lo ha detto Roberto Saviano ai microfoni di Sky Tg24 commentando il video che la Procura di Napoli ha diffuso ai media per cercare di individuare l'assassino del pregiudicato Mariano Bacioterracino avvenuto lo scorso 11 maggio a Napoli.

    Parlando delle immagini contenute nel filmato, lo scrittore partenopeo ha detto che "e' un'esecuzione che non mi ha sconvolto per niente, purtroppo e' ordinaria. Da trent'anni sono esecuzioni che avvengono quasi ogni giorno. La scelta della Procura di diffondere il video e' molto importante non solo perche' mostra a tutta Italia come si muore, smentendo -ha sottolineato- l'idea cinematografica che se ne ha: e' un gesto stupido e spietato che non ha niente di epico o di eroico anche dal punto di vista criminale".

    L'autore di "Gomorra", infine, ha auspicato che "il resto del paese, quello che e' rimasto sconvolto nel vedere il filmato, vedesse quello che capita in una parte d'Italia e che tutti si soffermassero sulla serena indifferenza delle persone che si trovano intorno al cadavere. Perche' accade? Perche' tutti sanno che ci potrebbe essere un palo che vede chi ha visto. Comportarsi cosi' significa testimoniare al palo: 'non ho visto niente'".


    http://www.libero-news.it/adnkronos/view/214055
     
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    Il filmato-shock sconvolge il mondo i vicoli restano indifferenti
    di Roberto Saviano

    Il killer è stato identificato. Diffondere il video è servito. Un omicidio rubricato nelle ultime pagine dei giornali locali quando è stato commesso, grazie al video diventa in mezzo mondo notizia da prima pagina, da aperture dei telegiornali. Il killer che credeva di averla scampata, come avviene per la parte maggiore delle esecuzioni di camorra, invece si trova ora a dover scappare.

    Il paese si sconvolge, i giornali stranieri si domandano com'è possibile, qualche politico provocato dalle agenzie di stampa rilascia dichiarazioni. Ma a Napoli tutto sommato non accade molto. È arrivata la soffiata, non si sa bene come. Del resto i clan stessi non avevano piacere di questa nuova luce mediatica, e sono ben felici di poterla far spegnere subito. Però non sono arrivate denunce. Il quartiere non si è ribellato. Quelle immagini sono state una ferita solo per alcuni. A molti napoletani anzi ha dato fastidio quello sgomento del resto d'Italia, sentirsi addosso gli occhi sgranati che guardavano quel video. Scandalizzati davanti a una cosa che accade continuamente, che fa parte della quotidianità con cui loro devono convivere.

    Vengono in mente le parole di un monologo capolavoro di Eduardo De Filippo, recitato in uno sceneggiato televisivo, "Peppino Girella", del 1963. La moglie di Andrea, il personaggio interpretato da Eduardo, risponde dinanzi ad ogni tragedia: "È cos'e nient" - è cosa da niente. È la voce classica di Napoli, di quel buon senso che fa accettare tutto e che è la forma di massima difesa e indolenza verso qualsiasi cambiamento. "Che vuoi fare: è cos'e nient", dice la moglie. E Eduardo risponde: "Pure questa è cos'e nient. È sempre cos'e nient. Tutte le situazioni le abbiamo sempre così risolte. È cos'e nient. Non teniamo che mangiare: è cos'e nient. Ci manca il necessario: è cos'e nient. Il padrone muore e io perdo il posto: è cos'e nient. Ci negano il diritto della vita: è cos'e nient'. Ci tolgono l'aria: è cos'è nient, che vvuò fa. Sempre cos'e nient. Quanto sei bella. Quanto eri bella. E guarda a me, guarda cosa sono diventato. A furia di dire è cos'e nient siamo diventati cos'e nient io e te. Chi ruba lavoro è come se rubasse danaro. Ma se onestamente non si può vivere, dimmi, dimmi "vabbuò è cos'e nient. Non piangere è cos'e niente. Se io esco e uccido a qualcuno è cos'e nient. E se io impazzisco e finisco al manicomio e ti chiedono perché vostro marito è impazzito tu devi dire: è impazzito per niente. È cos'e nient. È niente".

    Quando in fondo non si può fare niente, tutto si riduce ad una logica di guardie e ladri, dove ciascuno fa quel che gli tocca, rispettando il proprio ruolo, senza illudersi che si possa andare oltre. Senza credere o richiedere che sia dallo stesso territorio che possa venire una richiesta di cambiamento. I camorristi fanno i camorristi, le forze dell'ordine fanno le forze dell'ordine, la popolazione fa esattamente ciò che si vede in quel video: ci convive, ci passa accanto per proteggersi. L'indifferenza è il rovescio della paura, istinto di autoconservazione non solo fisica. Non si può pretendere che chi ha solo quello per preservare una dimensione vivibile del proprio quotidiano, se ne privi senza che un segno forte di volontà di smantellare i meccanismi che lo avvelenano sia arrivato dal di fuori.
    A Napoli si vendicano colpe commesse 10 anni, 15 anni fa: Mariano Bacioterracino viene ammazzato per uno di quegli omicidi, l'uccisione di Gennaro Moccia, che non si dimenticano anche se è passato un decennio. Semmai non ci si aspettava che sarebbe arrivata così tardi la vendetta. Ma qui tutto ha tempi lenti. Bacioterracino, come Giuseppe Setola, come forse anche il killer di Bacioterracino, sono tutti membri di camorra che la giustizia conosceva benissimo. Però i tempi dei processi li hanno rimessi in libertà, o sono stati errori di forma che hanno ridato questi uomini ai clan. I tribunali ti condannano con ritardo incredibile. È come se un bambino rompesse un lampadario e il padre gli desse uno schiaffo trent'anni dopo.

    Ma mentre i tribunali sono distratti, la memoria della camorra è lunga e inesorabile. E quindi se non esistono garanzie di incolumità né nello spazio né nel tempo, diventa assai difficile sottrarsi alla percezione del pericolo continuo, dell'assedio. Persino chi è direttamente colpito sembra ormai rassegnato. "Uccidono tanta gente, hanno ucciso anche mio marito. Qual è il problema?", risponde la moglie di Bacioterracino alla domanda di un giornalista. Infastidita che qualcuno le faccia una domanda sull'esecuzione, le chieda cosa prova. Non vuole neanche partecipare all'appello per identificare il killer. "Io non chiedo niente, se lo vogliono dire, lo dicono loro. Come faccio a chiederlo?".

    Quando si muore a Napoli, chiunque sia stato sui luoghi di morte sa che, a seconda di come reagiscono i familiari, dinanzi al cadavere si può capire molto. I familiari degli innocenti non sanno come reagire. Non riescono a credere che sia toccato proprio a loro. Restano increduli, pietrificati dall'orrore. Diversa è la reazione di chi quel genere di morte l'ha già messa in conto. Chi inizia a urlare, a strapparsi i capelli in un dolore da prefica, che seppur reale deve però celebrarsi in uno strazio per segnalare a chi ha ucciso: fermatevi. Questo è il massimo dolore possibile. Se hanno ammazzato il marito e l'hanno fatto in maniera pulita, c'è quasi da ringraziare. Non si toccheranno i parenti e non hanno fatto carneficine. Non è neanche arrabbiata la vedova: "E con chi devo essere arrabbiata? Non posso essere arrabbiata. Posso solo pregare per loro e basta. Come prego per mio marito, prego per loro. Io sono cattolica, vado in chiesa". Sembra essere tornati a vent'anni fa. Ci si giustifica dietro il dichiararsi religiosi come se la religione imponesse la rassegnazione, e il conforto dovesse coincidere con la resa.

    Questo video ha fatto emergere tutte le contraddizioni del Paese. Ha avuto tutta l'attenzione mediatica, ma un'altra volta non ha suscitato il minimo dibattito politico. La criminalità fa notizia e fa scandalo, ancora più quando passa per un filmato vero, ma tutto questo rischia di rimanere fumo negli occhi se nessuno vuole affrontare i suoi risvolti meno crudeli e spettacolari che non sono soltanto di ordine pubblico. La politica non intende interrogarsi su se stessa e sui meccanismi che tengono in ostaggio almeno un terzo del Paese. Allora l'esecuzione in diretta mandata in onda serve a poco. Se non vuole rinnovarsi, prendendosi il rischio di dare spazio a quegli esponenti che a Sud non hanno mai smesso di avversare i poteri criminali e le loro coperture, come si fa a pretendere un cambiamento culturale? Come si fa a immaginare lo sgretolamento di quell'omertà che sembra tipica soltanto della gente del Meridione, quando il disinteresse della politica nazionale non fa altro che farle da eco e a darle ragione?

    Omertà non è più soltanto tacere. Ormai è chiaro che omertà è soprattutto non voler sapere. Non sapere, non conoscere, non capire, non prendere posizione, non prendere parte. Questa è la nuova omertà. E con Eduardo De Filippo viene voglia di imprecare le sue frasi. Ci tolgono l'aria, ci negano il diritto alla vita, e noi a forza di ignorare e considerarla cosa da niente, diventiamo tutti niente.


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    Roberto Saviano sarà ospite da Fazio a "Che tempo che fa speciale" Mercoledi 11 novembre. Da non perdere!

     
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  12. Ireth74
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    CITAZIONE (*rosanna* @ 1/11/2009, 10:49)
    Roberto Saviano sarà ospite da Fazio a "Che tempo che fa speciale" Mercoledi 11 novembre. Da non perdere!


    Fantastico!! :wub:

    (Però: mercoledì? Allora vuol dire che La Squadra non ci sarà! :unsure: :hmm.gif: Vabbè pazienza, per Saviano si fa :D )!
     
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    Si, Meg, purtroppo ancora sostituzione per La squadra. Però per Saviano và benissimo!! Aspetto con ansia la serata!
     
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    Intervista allo scrittore: "Ha sempre avuto un ruolo attivo in quel territorio"
    "Il suo partito si è accorto in ritardo dei suoi legami: com'è possibile?"
    Saviano: "Verità che arriva in ritardo
    tutti sapevano, ora si metta da parte"

    ROMA - "Ho pensato subito "non mentivamo". Tutto quello che abbiamo scritto in questi mesi viene confermato da questa richiesta della magistratura". Roberto Saviano commenta così, in un'intervista a Radio Capital, la richiesta di arresto per Nicola Cosentino. "La cosa dolorosa è che Nicola Cosentino è stato per anni una colonna portante del centro destra in Campania e soltanto ora ci si accorge che aveva dei legami con il clan dei Casalesi. Come è possibile questo ritardo? Perché andava bene quando era solo sottosegretario e adesso che si è candidato alla presidenza della regione crea questo allarme?".

    Cosa vuol dire?
    "Chi segue da tempo le cose di camorra, sa che Nicola Cosentino ha avuto sempre un ruolo attivo in quel territorio. Un suo fratello, infatti, è sposato con la sorella di Giuseppe Russo cioè Peppe il Padrino, esponente del clan dei Casalesi e della famiglia Schiavone".

    E se il Parlamento dovesse respingere questa richiesta della magistratura?
    "Cosentino dovrebbe farsi da parte o comunque rinunciare all'immunità parlamentare, come ha promesso. Vediamo se la sua era una parola d'onore o una parola, come direbbe Leonardo Sciascia, da mezzo uomo".

    Proprio due giorni fa Cosentino ha detto: "Sto dalla parte di Saviano e di Don Peppe Diana, contro i clan".
    "Lo fa solo per la volontà di confondere le acque e soprattutto di evitare un conflitto che potrebbe danneggiarlo. Nicola Cosentino, non ha mai fatto antimafia, mai. Non è mai stato presente in prima linea nelle battaglie contro le organizzazioni criminali. Mi ha sempre colpito che Casal di Principe abbia tre parlamentari: una realtà di 20 mila persone riesce ad esprimere tre parlamentari. Nessuno dei tre ha mai portato avanti una battaglia contro le organizzazioni criminali. Che sia chiaro, se vieni da quella realtà, con un fortissimo clan presente sul territorio, in cui centinaia di persone sono state condannate per associazione mafiosa, è necessario che la politica risponda nell'immediato".
    (Niccolò Carratelli)

    (10 novembre 2009)

    http://www.repubblica.it/2009/10/sezioni/p...dimissioni.html
     
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147 replies since 26/3/2009, 09:20   1288 views
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